Lavori da incubo: ma sono domande da fare?
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Lavori da incubo: ma sono domande da fare?

Lavori da incubo: ma sono domande da fare?

Ecco la riscrittura del testo in 800 parole:

“Lavori da incubo: ma sono domande da fare?” si chiedevo guardando l'uomo di fronte a me, che con aria apparentemente innocente mi stava chiedendo questioni del tutto inusuali. Non avevo ancora presentato il mio curriculum, né avevo fatto nemmeno un solo passo fuori dal mio corpo. Eppure, in quel momento, mi stava facendo delle domande che avrebbero potuto far apparire il mio viso sulla copertina di un giornale scandalistico.

“Elena, sei sposata?” mi chiese con un sorriso gentile, mentre io restavo a bocca aperta cercando di capire il senso di quelle domande.

“Ah, no…” risposi, con una certa esitazione, ancora non abituata a quelle provocazioni.

“Mmm, e i figli?” mi chiese l'uomo, come se fossi stata una contabile in un negozio di generi alimentari e non una professionista qualificata, pronta a presentarmi come sono.

“Glielo dirò in seguito…” tentai di dire, ma l'uomo non mi diede retta.

“Pensa a una vita fuori dal lavoro?” disse, con un tono che non nascondeva il suo giudizio sul mio stile di vita.

In quell'istante mi resi conto di essere vittima di un'intervista discriminatoria, di un colpo di spada sull'intero concetto di lavoro e famiglia. Mi sentivo come se fossi una merce, un bene da vendere, non una persona con diritti e libertà.

Come se non bastasse, l'uomo mi chiese altre domande addirittura più imbarazzanti. Era come se stesse cercando di verificare se fossi una donna disponibile, pronta a rinunciare ai miei diritti e alle mie libertà, solo per lavorare. Era come se stesse cercando di assumermi non come una professionista, ma come una schiava.

Non è successo solo a me. Tante altre donne e uomini hanno sperimentato lo stesso genere di discriminazione in fase di selezione. Tante aziende, a dispetto del Codice delle pari opportunità, continuano a fare domande proibite, cercando di giudicare la nostra capacità di lavorare, la nostra disponibilità a rinunciare alla nostra vita privata.

Ecco il punto. Molte aziende non cercano lavoratori, ma corpi da sfruttare. Non cercano persone con vite proprie, con bisogni e desideri, ma solo mezzi di produzione. E noi, le persone, ci lasciamo intimidire e siamo pronte a sacrificare le nostre libertà, le nostre identità, per avere un impiego.

Ecco il problema. Le aziende non considerano la donna come un'individuo completo, con un'identità, una vita privata e professionale, ma solo come un essere umano sfruttabile, disponibile a rinunciare ai suoi diritti e ai suoi bisogni. Ecco il problema. Le aziende non vogliono donne con una vita, ma solo corpi da lavorare.

Sono proprio queste le ragioni per cui, in Italia, il Codice delle pari opportunità vieta ai datori di lavoro di fare domande discriminatorie. Sono proprio queste le ragioni per cui, le donne, come me, devono difendere i loro diritti, le loro libertà, e non farsi umiliare da domande proibite.

Perché se le aziende non cambiano, e non iniziano a considerare le persone come individui, e non come merce, la discriminazione continuerà a essere una realtà, e noi continueremo a subirla, e a patire per la nostra esistenza.


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