Nel luglio 2025, senza alcun annuncio ufficiale, LinkedIn ha modificato silenziosamente le sue norme in lingua inglese, rimuovendo i riferimenti espliciti al misgendering e al deadnaming come forme di incitamento all'odio. Due termini che, per la comunità transgender, rappresentano tra le forme più frequenti e tossiche di odio online.
Le modifiche sono state notate e denunciate da Open Terms Archive e successivamente confermate da Advocate e Out Magazine. Nella versione precedente delle Professional Community Policies, LinkedIn vietava espressamente il “misgendering o deadnaming di individui transgender”. Oggi, quei riferimenti sono scomparsi.
La pagina aggiornata mantiene un generico divieto contro contenuti che “attaccano, denigrano, disumanizzano o incitano all'odio” basati su caratteristiche personali, ma senza più nominare chiaramente le persone trans. Una sfumatura che non è casuale.
Una tendenza inquietante
Negli ultimi mesi, anche Meta (Facebook, Instagram, Threads) e YouTube hanno adottato politiche simili, eliminando o attenuando i riferimenti a identità di genere e orientamento sessuale. Le piattaforme giustificano queste modifiche come “revisioni linguistiche” o “semplificazioni”, ma di fatto si tratta di un arretramento nelle tutele per gli utenti LGBTQ+.
Secondo GLAAD, è l'effetto diretto del nuovo clima politico USA: nel suo secondo mandato, l'amministrazione Trump ha firmato ordini esecutivi per ridefinire sesso e genere in base all'assegnazione alla nascita, influenzando le policy di salute, istruzione e immigrazione. E ora, anche i social sembrano allinearsi.
L'ipocrisia delle big tech
Microsoft, proprietaria di LinkedIn, si vanta da anni di promuovere diversità e inclusione, pubblicando report patinati e dichiarazioni d'intenti. Ma quando viene chiesto conto di queste modifiche, la risposta è vaga: “stiamo esaminando la questione”. Nessuna presa di posizione chiara, nessuna assunzione di responsabilità.
Le politiche sull'incitamento all'odio riflettono i valori di un'azienda. E se quei valori vengono annacquati o mascherati da burocratese, il messaggio è chiaro: la sicurezza delle persone trans non è più una priorità.
Italia: per ora tutto fermo?
La versione italiana delle norme è ferma da oltre tre anni. Al momento, il misgendering e il deadnaming sono ancora considerati contenuti “astiosi e dispregiativi” da rimuovere.
Ma per quanto ancora?
In assenza di un annuncio ufficiale, il rischio è che le modifiche anglofone vengano replicate anche nel nostro Paese.
In un contesto politico in cui i diritti LGBTQ+ vengono continuamente messi in discussione e la presidente del Consiglio ostenta il proprio disprezzo per la cosiddetta “ideologia gender”, è difficile non vedere un pericoloso segnale in tutto questo.
Deadname e misgendering non sono dettagli
L'uso del deadname è una questione delicata. Anche quando viene menzionato per ragioni storiche o biografiche, può risultare offensivo se non trattato con rispetto. Ma nel caso delle piattaforme online, la questione è ancora più urgente: qui non si parla di storytelling, ma di sicurezza.
Nominare una persona con il nome che non riconosce più, o usare pronomi sbagliati in modo intenzionale, è un atto di violenza verbale. Ed è proprio questo che LinkedIn ha smesso di vietare in modo esplicito.
La normalizzazione del linguaggio ambiguo, l'eliminazione silenziosa di tutele e l'assenza di prese di posizione nette sono segnali gravi. Non possiamo permettere che il rispetto per l'identità delle persone trans diventi un'opzione.
Il deadnaming non è “opinione”. Il misgendering non è “dibattito”. Sono forme d'odio. E ogni piattaforma che finge di non saperlo, ne diventa complice.